Dimissioni per giusta causa: come non perdere la Naspi

ll rapporto di lavoro, come noto, ha natura contrattuale e può estinguersi per diverse cause. In caso di dimissioni, esistono alcune situazioni in cui è possibile non perdere l’indennità di disoccupazione. Uno di questi è quello delle dimissioni per giusta causa, ma ad alcune condizioni. 

In questo articolo, infatti, ci concentreremo su questo argomento, analizzando non solo la normativa di riferimento e gli effetti, ma soprattutto le condizioni e la procedura da seguire affichè in caso di dimissioni per giusta causa non si perda la Naspi.

La normativa di riferimento per le dimissioni per giusta causa

La disciplina delle dimissioni per giusta causa si trova principalmente nel Codice civile, agli articoli 2118 e 2119. In particolare, l'articolo 2119 stabilisce che:

"Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto a tempo indeterminato, senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto."

Ma quando si configura, in concreto, la giusta causa di dimissioni o di risoluzione del rapporto lavorativo?

Le dimissioni per giusta causa si configurano quando gravi inadempimenti del datore di lavoro rendono impossibile la prosecuzione del rapporto lavorativo. La legge non fornisce una definizione specifica di "giusta causa", ma la giurisprudenza ha individuato diverse casistiche, tra le quali l’unica a dare certezza – in quanto non contestabile dal datore di lavoro – è il

Ci sono però ulteriori casi nei quali per il lavoratore è possibile porre fine al rapporto di lavoro con diritto alla Naspi e senza che gli venga decurtato il preavviso (indennità economica corrispondente al preavviso, che peraltro spetterebbe di contro al lavoratore).

Tuttavia, nella pratica, tali ipotesi sono contestabili dal datore di lavoro, il quale – se non opera secondo buona fede e correttezza – tipicamente nega le situazioni alla base della giusta causa, come il mobbing verso il dipendente, comunicando al Centro per l’impiego dimissioni “volontarie” (e non “per giusta causa”) e non versando il ticket Naspi.

La conseguenza è che il lavoratore si dimette, indicando telematicamente “giusta causa”, ma si ritrova purtroppo senza Naspi in quanto l’INPS riferisce che il datore di lavoro l’ha contestata e soltanto un giudice può accertarla.

dimissioni per giusta causa e naspi

Come fare in tutti questi casi (di mobbing, straining, demansionamento, molestie sul lavoro, etc.), che sono poi i più frequenti e diffusi rispetto al mancato pagamento di molteplici stipendi ?

Ebbene, nei seguenti casi, è possibile e doveroso contestare legalmente (l’ordinamento richiede che il lavoratore si attivi con tempestività nella contestazione, anche per evitare prescrizioni) al datore di lavoro le eventuali scorrettezze ed inadempimenze di quest’ultimo: in difetto, infatti, non sarà nemmeno possibile per il lavoratore agire per ottenere eventuali risarcimenti; inoltre, l’INPS ai fini della domanda di Naspi chiede ormai di acquisire anche la copia dell’intervento dell’Avvocato con la quale si è contestata la sussistenza di giusta causa di dimissioni. Solo con un intervento legale preventivo sarà dunque possibile contestare ed avvalorare la giusta causa o, meglio ancora, mettere il datore di lavoro, che sia stato inadempiente e scorretto, nella condizione di negoziare una risoluzione del rapporto che contempli un risarcimento dei danni (o incentivo o buonuscita) evitando il possibile contenzioso in Tribunale.

Sulle ipotesi di mobbing che possono fondare una giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo favorevole al dipendente, rimandiamo agli altri articoli specifici sul mobbing, ricordando qui che trattasi di condotte vessatorie che il datore ha posto in essere sistematicamente contro il dipendente, spaziando da:

Effetti della risoluzione del rapporto di lavoro per “giusta causa” quando essa non è contestabile dal datore di lavoro

Le dimissioni per giusta causa, a patto che si intervenga al fine di prevenire e neutralizzare la contestazione del datore di lavoro, hanno diversi effetti:

La procedura

Dal 2016, le dimissioni per giusta causa devono essere presentate telematicamente, tramite il sito web appositamente predisposto dal Ministero del Lavoro, ma come abbiamo visto qualora il lavoratore voglia dimettersi per “giusta causa” dovrà contestarla legalmente e preventivamente al datore di lavoro (anche al di fuori del canale telematico) , rivolgendosi naturalmente ad un avvocato giuslavorista che possa tutelarlo con le specifiche competenze.

Conclusione

Le dimissioni per “giusta causa”, o meglio la risoluzione del rapporto fondata su di una giusta causa (a favore) del dipendente, possono essere un importante strumento per tutelare i diritti dei lavoratori in caso di gravi inadempimenti o di comportamenti mobbizzanti del datore di lavoro. È importante ricordare, però, che la giusta causa va formalmente contestata per vie legali, preventivamente, e con le dovute competenze giuslavoristiche.

Aggiornamento: novità Decreto Fiscale 21 ottobre 2021 – Proroga CIG e Blocco Licenziamenti 31 dicembre 2021.

Aggiornamento ottobre 2021: quale disciplina in vigore dal 22 ottobre 2021 in materia divieto licenziamenti individuali e collettivi?

Con l’entrata in vigore, il 22.10.21, del DL del 21 ottobre 2021 n. 146 (cd. Decreto Fiscale - Lavoro) vengono introdotte “misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili “ con importati novità in materia di lavoro e previdenza, tra le quali innanzitutto le seguenti:

Proroga, per alcuni settori, della Cassa Integrazione e del divieto di licenziamenti:

Il DL 21 ottobre 2021 , n. 146, introduce l’estensione della Integrazione Salariale con annessa proroga del conseguente divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei seguenti casi.

  1. per i lavoratori in forza al 22 ottobre 2021, prevede la possibilità di estendere la domanda di assegno ordinario e di cassa integrazione salariale in deroga per una “durata massima di tredici settimane nel periodo tra il 1° ottobre e il 31 dicembre 2021”, senza contributo addizionale e nel limite di spesa di 657,9 milioni di Euro per il 2021, ai datori di lavoro che operano in settori non industriali, tutelati dal Fondo di Integrazione Salariale ( FIS ), dai Fondi di solidarietà bilaterali ( per entrambi assegno ordinario ) e dalla Cassa Integrazione in Deroga, semprechèsi tratti di datori di lavoro che hanno esaurito le 28 settimane di ammortizzatori covid-19 previste dal Decreto Sostegni ( DL 41/2021 ).
  2. inoltre, sono possibili ulteriori 9 settimane di cassa ordinaria COVID-19 per le aziende tessili, di confezione di articoli di abbigliamento, in pelle e pelliccia e di fabbricazione di articoli in pelle e similari (codici Ateco2007 13 – 14 – 15 ), semprechè le aziende abbiano esaurito le 17 settimane di ammortizzatori sociali covid-19 (previste dall’art. 50-bis del DL 25 maggio 2021 n. 73 - cd. DL Sostegni-bis ); anche in questo caso senza contributo addizionale, con possibilità di pagamento diretto dell’INPS, nel limite di spesa di 140,5 milioni di Euro per il 2021.

In entrambi i casi è previsto come detto il blocco dei licenziamenti per tutta la durata del trattamento di integrazione salariale richiesto.

Molti lavoratori ancora chiedono se tale divieto di licenziamento si estenda anche alle ipotesi di licenziamento per giusta causa: la risposta è certamente no, in quanto la giusta causa di licenziamento è, come lo è sempre stato, un motivo che esula dal c.d. blocco dei licenziamenti, essendo gravemente basato su causa disciplinare (art. 2119 Codice Civile; art. 7 Statuto dei Lavoratori).

Infine, in materia di Congedi parentali straordinari per lavoratori-genitori il DL 164 in oggetto ha confermato la possibilità di astenersi dal lavoro fino la 31.12.2021 per i genitori di figli minori di 16 anni, in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza, nonché in caso di infezione da Covid-19 o di quarantena disposta dalle strutture sanitarie; laddove, qualora il figlio convivente sia minore di 14 anni, è riconosciuta un’indennità pari al 50 % della retribuzione.

Sul fronte Malattia e quarantena, poi, è stata prorogata fino al 31 dicembre 2021 l’equiparazione, ai fini del corrispondente trattamento economico, del periodo di quarantena alla malattia.

Cosa prevede la normativa in vigore fino al 31 ottobre 2021 sul blocco dei licenziamenti ?

Il c.d. Decreto Lavoro e Imprese (D.L. n. 99 del 30 giugno 2021), pubblicato in Gazzetta Ufficiale in pari data, esclusivamente per i settori ritenuti più in crisi (tessile e abbigliamento) ha prorogato il divieto dei licenziamenti individuali e collettivi per g.m.o. (giustificato motivo oggettivo) sino al 31 ottobre 2021; introducendo la possibilità, per tutte le imprese di altro settore, di utilizzare invece ulteriori 13 settimane di CIG nel 2021.

Vediamo quindi nel presente articolo aggiornato :

a) quali sono le categorie dei lavoratori "al sicuro" e quali invece quelle a "rischio" licenziamento già dal 1 luglio 2021;

b) quali imprenditori e aziende potranno far ricorso ancora una volta alla Cassa Integrazione;

c) ed infine quali sono le eccezioni che consentono in ogni caso di procedere con l'eventuale licenziamento a prescindere dal settore e della proroga del divieto.

La disciplina del divieto di licenziamento sino al 30 giugno 2021

L'ultimo Decreto Legge (n.41 del 22 marzo 2021) aveva prorogato il divieto di licenziamento fino al 30 giugno 2021 per tutte le imprese, estendendo ulteriormente il blocco dei licenziamenti sino al 31 ottobre 2021 per le imprese beneficiarie dei trattamenti di Assegno Ordinario e di Cassa Integrazione in Deroga (CIGD) per Covid.

Rientrano nel divieto le procedure di licenziamento collettivo, i licenziamenti individuali o plurimi per c.d. "giustificato motivo oggettivo".

In questo articolo, vedremo però come il divieto di licenziamento non sia assoluto, lasciando cioè dei margini operativi e di licenziamento alle Imprese e Società, che ogni dipendente dovrebbe conoscere e tener bene a mente per non rischiare "spiacevoli soprese" in un periodo storico così particolare.

La legge sopra citata aveva quindi mantenuto il divieto di effettuare licenziamenti per motivi oggettivi, da parte di tutti i datori di lavoro a prescindere dal requisito dimensionale, in relazione alle fruizione degli ammortizzatori COVID-19.

In particolare il divieto riguardava:

- le procedure di licenziamento collettivo, previste dagli articoli 4, 5 e 24, della Legge n. 223/1991,

- procedure di licenziamento collettivo avviate dopo il 23 febbraio 2020,

- licenziamenti individuali o plurimi per motivo oggettivo,

- procedure di conciliazione obbligatoria, previste dall’articolo 7 della Legge n. 604/1966, per i lavoratori in tutela reale (ante Jobs Act).

a) Procedure di licenziamento collettivo:

è ammessa una eccezione allorquando i dipendenti interessati al recesso risultino impiegati in un appalto che ha subìto un cambio di appaltatore, il quale, in forza di una norma o in base ad una disposizione del ccnl, o di clausola prevista all’interno dello stesso contratto di appalto, è obbligato a riassumere il personale in forza al momento del subentro.

b) Licenziamenti individuali, anche plurimi:

sono i recessi effettuati per ragioni inerenti l'attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa, così come previsto dall’articolo 3, della legge n. 604/1966. Quindi per motivazioni non disciplinari né riguardanti il lavoratore (motivi soggettivi), ma legate esclusivamente a scelte organizzativo-imprenditoriali, quali ad esempio:

· Ristrutturazione dei reparti

· Soppressione del posto di lavoro

· Impossibilità della ricollocazione, anche all’interno del “gruppo di imprese”

· Licenziamento del lavoratore a tempo indeterminato in edilizia, anche per chiusura del cantiere

· Riassetto organizzativo finalizzato ad una migliore gestione economica dell'impresa

· Informatizzazione dei servizi che rendano necessaria una modifica dell'organizzazione delle prestazioni

· Cessazione dell'attività produttiva

· Terziarizzazione o esternalizzazione di attività

· Chiusure di reparti o filiali

· Inadempimento del dipendente a lui non imputabile, come, ad esempio, la sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni

· Provvedimenti di natura amministrativa che incidono sul rapporto di lavoro: ritiro del porto d'armi con riferimento ad una guardia giurata, ritiro della patente di guida nell'ipotesi di un autista.

c) sono infine vietati i “recessi plurimi” per esigenze oggettive dell’azienda, che vengono effettuati nell’arco temporale di 120 giorni pur non raggiungendo le cinque unità di lavoratori coinvolti e licenziati.

Dal 1 luglio 2021 per chi vige (ancora) il divieto di licenziamento ?

Tra le numerose misure introdotte, il decreto D.L. n.99/2021 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30.06.21 sancisce la proroga fino al 31 ottobre 2021 del divieto di licenziamento per i soli datori di lavoro della c.d. moda e tessile allargato, ossia:

i quali tutti siano identificati, secondo la classificazione delle attività economiche Ateco2007, con i codici 13, 14 e 15.

Al contrario, per tutti gli altri datori di lavoro, che operano in settori diversi da quelli sopra elencati ed identificati dai codici Ateco, a partire dal primo luglio è invece superato il divieto e possono quindi liberamente recedere dal rapporto di lavoro adducendo il giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Tuttavia il Decreto stesso stabilisce altresì che queste imprese "libere di licenziare" - che non possano più fruire della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria - possano farlo in deroga per 13 settimane fino al 31 dicembre 2021 senza contributo addizionale: solo in tale ipotesi, ossia qualora se ne avvalgano, continuerà a vigere anche per loro il connesso e conseguente divieto di licenziare.

Il licenziamento per giusta causa e le altre eccezioni che consentono di licenziare nonostante il divieto e quali sono quindi i lavoratori a rischio ?

Non sono qualificabili come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e quindi sono esclusi dal divieto di licenziamento, le seguenti risoluzioni del rapporto di lavoro:

· licenziamento per motivi disciplinari: si tratta dei licenziamenti effettuati al termine della procedura prevista dall’articolo 7 della legge 300/1970, allorquando il lavoratore abbia commesso un inadempimento grave agli obblighi contrattuali (a seconda della gravità: licenziamento per giustificato motivo soggettivo , ovvero licenziamento per giusta causa);

· licenziamento per superamento del periodo di comporto;

· licenziamento durante o alla fine del periodo di prova;

· licenziamento per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia;

· licenziamento per sopravvenuta inidoneità alle mansioni;

· licenziamento del lavoratore domestico;

· licenziamento del dirigente (che non sia “pseudo-dirigente”);

· la risoluzione dell’apprendista al termine del periodo di apprendistato;

· licenziamento dell’ex socio di una cooperativa di produzione e lavoro, previa risoluzione dal rapporto associativo, in base allo Statuto societario e dal regolamento;

- risoluzione consensuale del rapporto

- in caso di fallimento, qualora non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso;

- cessazione definitiva dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività; a meno che non si configuri un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa (art. 2112 c.c.);

- accordo collettivo aziendale, sottoscritto con le organizzazioni sindacali territoriali (non rsa o rsu) comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Queste le caratteristiche che dovrà avere la procedura: purchè sia previsto un incentivo per i dipendenti alla risoluzione del rapporto di lavoro; e si tratti di una adesione dei singoli lavoratori certificata da un accordo individuale in sede cd. protetta. Per i lavoratori è riconosciuto il diritto alla NASPI (articolo 1, del decreto legislativo n. 22/2015.

In conclusione

A seguito dell'aggiornamento normativo del 30 giugno 2021, abbiamo dunque visto come dal 1 luglio 2021 sia ora vigente un c.d. divieto "selettivo" di licenziamento, correlato a ben precisi e circoscritti settori di attività o all'utilizzo di un'apposita estensione in deroga della Cassa Intregrazione salariale.

Abbiamo altresì constatato, in questi mesi di blocco licenziamenti, come molti datori di lavoro abbiamo comunque fatto ricorso a delle causali disciplinari, per intimare dei licenziamenti per asserita "giusta causa".

Conoscere in maniera specifica le situazioni di diritto, nelle quali ci si trova in concreto, è essenziale:

L'assistenza dell'avvocato specialista nel Diritto del lavoro riveste quindi sempre un ruolo fondamentale per prevenire e risolvere situazioni critiche ed ottenere il miglior risultato possibile.

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Mobbing: il datore di lavoro è tenuto al risarcimento, per non aver garantito la serenità sul lavoro.

Il mobbing da parte del Responsabile o Superiore-gerarchico.

Accade sempre più spesso, specialmente in questo difficile periodo storico (di pandemia), che l'ambiente di lavoro non sia un posto "sicuro" dove poter lavorare serenamente, bensì un luogo all'interno del quale il c.d. Responsabile o Superiore gerarchico (capo area/capo-reparto, direttore/dirigente) - abusando della sua posizione - sia libero di porre in essere vessazioni o umiliazioni nei confronti di un altro lavoratore: quest'ultimo, infatti, trovandosi ad un livello “inferiore”, è costretto a subire di tutto, con gravi patimenti a livello psicologico, tali da riflettersi poi negativamente sulla qualità del suo lavoro, ed anche sulla sua vita privata (con effetti, a lungo andare, devastanti).

Il mobbing da parte di un collega, ovviamente di livello superiore, costituisce infatti una variabile del mobbing sempre più diffusa, in quanto spesso il titolare dell'impresa si disinteressa di ciò che accade a livello di relazioni (e quindi a livello psicologico) tra i suoi dipendenti, limitandosi ai controlli di Legge imposti in materia di sicurezza e salute fisica.

Alcune volte, duole dirlo, è stato invece riscontrato che il titolare dell'impresa fosse perfettamente a conoscenza del fatto che un responsabile di reparto, o un dirigente di un suo stabilimento, mobbizzava un suo dipendente - divenuto ormai "sgradito" all'Azienda - consentendo tali condotte illecite, per metterlo in difficoltà ed indurlo in errore sul lavoro: in maniera tale da renderlo sanzionabile disciplinarmente, e quindi licenziabile per "giusta causa" anche in questo periodo di "blocco" dei licenziamenti (vietati infatti per cd. "motivo oggettivo", ma rimanendo possibile licenziare per motivi disciplinari).

Cosa dovrebbe fare il titolare dell'Impresa (all'interno della quale si verifichi mobbing ai danni di uno o più dipendenti) ?

Ebbene, a fronte di simili condotte di mobbing perpetrate a danno di un dipendente, a parte del suo responsabile o superiore gerarchico, si prefigura una vera e propria responsabilità datoriale per mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore vittima del mobbing.

Infatti, sussiste in capo al datore di lavoro, Imprenditore o legale rappresentante della Società, un obbligo di intervenire per impedire e far cessare simili condotte, non potendo disinteressarsene o fingere di non sapere o non aver saputo nulla al riguardo.

Tale obbligo discende innanzitutto da una norma di ordine generale, di cui all'art. 2087 c.c. (detta anche "di chiusura" del sistema antinfortunistico), che è estensibile a situazioni ed ipotesi non espressamente considerate e valutate dal legislatore e che impone all'imprenditore di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori.

Il datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno da mobbing, per non aver garantito la serenità del dipendente (sul posto di lavoro).

Sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dal lavoratore, lo stesso non può tuttavia andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dal citato art. 2087 c.c.., in virtù dei quali avrebbe dovuto adoperarsi per garantire un ambiente lavorativo salubre e sicuro anche sotto i profilo della dignità e della salute psichica di tutti i suoi dipendenti.

In un caso affrontato dalla Cassazione, ad esempio, il datore di lavoro, sebbene, in una circostanza, avesse udito le grida rivolta ad una sua dipendente, e sebbene fosse stato informato delle vessazioni che stava subendo, non aveva mai reagito a tutela dell'integrità morale e della dignità della vittima.

Può trattarsi di atteggiamenti aggressivi ed offese continue a scopo di prevaricazione, sulle quali il datore di lavoro, nonostante ne fosse a conoscenza, aveva soprasseduto, di fatto "accettandole", anzichè intervenire per farle cessare e per impedirle.

Ed ancora, può trattarsi, di accuse infondate e di continui rimproveri ingiustificati, nonchè di costanti minacce di licenziamento o di ogni altra azione ingiustamente penalizzante ed offensiva della dignità del lavoratore.

Tutte queste condotte vessatorie costituiscono infatti mobbing ove sorretti da una volontà di prevaricazione e laddove perpetrate attraverso una mirata reiterazione di condotte ostili, atte a mortificare il dipendente, cagionandogli per l'effetto un patimento o danno psico-fisico.

Ebbene, se tali condotte sono realizzate da un altro dipendente (tipicamente il responsabile del lavoratore che ne è vittima), qualora vengano denunciate o siano comunque conosciute del datore di lavoro (titolare dell'Impresa o amministratore della Società), lo "costringono" a farsi parte diligente ed attiva affinchè vi ponga rimedio immediato, in osservanza degli obblighi datoriali di assicurare un ambiente di lavoro salubre e sicuro, anche sotto il profilo dell’integrità psico-fisica e della salvaguardia della dignità del dipendente. (come affermato dalla costante giurisprudenza della Cassazione, tre le molte cfr. Cass. n.27913 del 4.12.2020)

La tutela ed il risarcimento: come fare?

Le violazione dei suddetti oneri di tutela e garanzia, da parte del datore di lavoro, comportano per lui l'obbligo di risarcire i danni, di natura psico-fisica (ovviamente attestati da opportuna documentazione medica), cagionati al suo dipendente vittima di mobbing: per tale ragione è fondamentale contestare la condotta mobbizzante subita o che si sta subendo con i corretti strumenti giuridici.

Da qui l'importanza di un intervento tempestivo e competente, che soltanto un avvocato giuslavorista esperto in materia di Diritto del Lavoro potrà offrire al lavoratore mobbizzato.

SUL TEMA DEL MOBBING LEGGI ANCHE :

Mobbing sul lavoro: come difendersi ?

Al giorno d'oggi sono sempre di più i lavoratori che ritengono di aver subito sul posto di lavoro, almeno una volta, un torto, un abuso, una discriminazione, delle vessazioni, ovvero il c.d. "mobbing", o il meno conosciuto "straining", da parte del proprio capo, da un superiore, o da altri colleghi.

Tuttavia non sempre si tratta di vero e proprio "mobbing", nonostante tale vocabolo sia sempre più abusato e oggetto di luoghi comuni, e - data l'importanza e difficoltà di poter provare che sia tale - è bene acquisire maggiore consapevolezza su di esso, in modo da sapersi orientare correttamente, individuando quando si tratta realmente di mobbing (e quando invece no) al fine di difendersi in maniera efficace e proficua.

Ma cosa definisce (giuridicamente) il Mobbing?

È la giurisprudenza - e non la legge o il codice civile - a darne una definizione, affermando che per “mobbing” si intende una condotta, del datore di lavoro o del superiore gerarchico, protratta e progressiva nel tempo, realizzata nell’ambiente di lavoro, consistente in sistematici (e quindi reiterati) comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di persistente prevaricazione o di persecuzione a livello psicologico, con fini di mortificazione morale e/o emarginazione del dipendente, rivelandosi conseguentemente lesive della sua dignità morale, personale e professionale, e con effetti dannosi per la sua salute, intesa come integrità psico-fisica.

Tipicamente, il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e, nel medio lungo termine, accusa non solo malessere lavorativo ma veri e propri disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore, che possono portare anche ad invalidità psico-fisiche temporanee e/o permanenti.

Sul piano giuridico, il mobbing sul rapporto di lavoro deriva essenzialmente dalla violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi derivantigli dall’art. 2087 c.c. in combinato disposto con l'art.32 della Costituzione e con gli artt. 1175 e 1375 c.c. (principi basici della correttezza e buona fede contrattuale nello svolgimento del rapporto), nonchè in raccordo con altre norme, a seconda della fattispecie, come ad es., in caso di demansionamento, con l’art. 2103 c.c.; in caso di discriminazioni con le norme anti-discriminatorie; in caso di accanimento disciplinare con le disposizioni di cui all'art.7 dello Statuto dei Lavoratori e del codice civile che regolamentano il potere disciplinare del datore di lavoro.

L’art. 2087 c.c., da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, stabilisce che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro": secondo la giurisprudenza l’obbligo non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione in materia di sicurezza sul lavoro, implicando altresì il dovere dell’azienda di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore, in raccordo con il principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 del Codice Civile. E da tale disposizione generale sorge per il datore di lavoro anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento dannoso per l'integrità psico-fisica e la saluta del lavoratore, che sia posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa.

Infine il mobbing può essere ricondotto ad uno o più episodi di molestie sessuali (D.Lgs. 198/2006 come modificato dal d.lgs. 5/2010), oppure ad un fattore discriminante - di razza, etnia, sesso, religione, orientamento sessuale, handicap, ecc. - con riferimento normativo ai D.Lgs. 215/2003, D.Lgs. 216/2003 e D.Lgs. 198/2006 come modificato dal d.lgs 5/2010, che descrivono le molestie morali come quei comportamenti indesiderati posti in essere per i fattori discriminanti “aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo”.

Quattro sono gli elementi costitutivi della fattispecie mobbing:

  1. la serie di comportamenti di carattere persecutorio (inadempimento contrattuale art. 2087 c.c.)– anche leciti o legittimi se considerati singolarmente – posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o di altri dipendenti;
  2. l’evento lesivo della salute o della personalità del lavoratore;
  3. il nesso eziologico tra tali condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio a fare da trait d'union tra i vari comportamenti.

Il mobbing è quindi una fattispecie aperta ad accogliere le più disparate condotte, tutte però connesse dai suddetti quattro presupposti - requisiti.

Il nodo cruciale e critico è da sempre quello dell’onere della prova sia del danno subito dal lavoratore vittima di mobbing, sia del nesso causale che lo lega eziologicamente alla condotta datoriale: concezione del danno come conseguenza e non come evento, gravando il lavoratore dell’onere di provare i primi due dei quattro elementi di fatto-costitutivi sopra indicati, spettando invece al datore di lavoro provare l’assenza di colpa, e dunque che gli atti e i comportamenti posti in essere sono conformi all’obbligo di cui all’art.2087 c.c. e che in ogni caso non sono tra loro collegati da un intento persecutorio o discriminatorio, ovvero che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile (Cassazione n.24883/2019).

Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione (ordinanza 29 gennaio - 23 giugno 2020, n. 12364) il lavoratore deve dimostrare quindi che la condotta pertetrata a suo danno è stata "intenzionalmente ed ingiustificatamente ostile, avente le caratteristiche oggettive della prevaricazione e della vessatorietà, connotato da plurime condotte emulative pretestuose, irrilevanti essendo a tal fine le mere posizioni divergenti e/o conflittuali connesse alle ordinarie dinamiche relazionali all’interno dell’ambiente lavorativo

Un contemperamento è offerto dalla prova per presunzioni, e quindi ammettendo che la prova del disegno criminoso del mobber possa essere fornita anche in modo indiretto, essendo deducibile dalle caratteristiche di ripetitività e pretestuosità delle condotte lamentate.

Come individuare correttamente il Mobbing? E come dimostrarlo nelle sedi opportune?

E’ opportuno innanzitutto individuare il fenomeno in maniera corretta per non incappare in azioni controproducenti e che non condurrebbero ad alcun risultato positivo per il lavoratore.

Per fare ciò, esistono determinati requisiti presupposti, o parametri, cui far riferimento per l’individuazione e la prova del mobbing:

  • Ambiente lavorativo
    Il mobbing deve svolgersi materialmente sul luogo di lavoro, sebbene possa poi ripercuotersi nella sfera di vita personale e privata del mobbizzato
  • Frequenza
    Le vessazioni, gli abusti o azioni ostili e persecutorie, devono accadere in maniera reiterata e non risolversi in un caso "isolato"
  • Durata e frequenza
    Il comportamento mobbizzante deve essere perpetrato in maniera sistematica e persistente per alcuni mesi (generalmente un parametro valido è quello di 6 mesi, riducibile nei casi di c.d. “quick mobbing” dove la frequenza è praticamente quotidiana e quindi particolarmente devastante).
  • Tipologia
    Le azioni devono presentare tendenzialmente due o più delle seguenti caratteristiche : 1) critiche e rimproveri ingiustificati, gesti e insinuazioni con significato negativo, minacce, limitazioni delle capacità espressive e della libertà di pensiero; 2) isolamento sistematico, deliberata negazione di informazioni relative al lavoro o manipolazione delle stesse o divieto per i dipendenti di parlare con il lavoratore o, ancora, collocazione del lavoratore in luogo isolato; 3) demansionamento o cambiamenti delle mansioni: ad es. attribuzione di mansioni dequalificanti, senza senso, umilianti, ecc.; 4) attacchi alla reputazione: ad es. calunnie, offese, abusi e aggresioni verbali; 5) violenza e minacce di violenza, tra cui molestie sessuali, minacce di violenza fisica, adibizione a mansioni nocive per la salute, anche in relazione ad eventuali condizioni di invalidità.
  • Dislivello
    La vittima è comunque in una posizione costante di inferiorità, o perchè subisce da parte di un superiore gerarchico o perchè subisce da parte di più soggetti (colleghi)
  • Progressione
    delle azioni che si reiterano e protraggono nel tempo, identificabili in fasi successive e crescenti, dall'inizio del conflitto, passando per i primi abusi e sintomi psico-somatici, sino a giungere ad una "esclusione" dall'ambiente lavorativo.
  • Intento persecutorio nei confronti della vittima (obiettivo conflittuale e carica emotiva fortemente negativa)

Gli effetti dannosi del mobbing.

La vittima di mobbing può incorrere in serie difficoltà a livello psicologico ed esistenziale, fino ad arrivare a disturbi di adattamento e/o patologie di tipo cronico.

Al fine di comprovare il mobbing, poichè l'onere della prova è a carico del lavoratore mobbizzato, quest'ultimo potrebbe richiedere, ai fini risarcitori, che in sede di Consulenza Tecnica d’ufficio venga valutata la sussistenza non solo del danno biologico, ma anche del danno esistenziale e morale, e che il CTU esprima un giudizio di compatibilità tra le condotte denunciate e la presenza di tutti i pregiudizi non patrimoniali, non soltanto di quello in ambito biologico.

Quali azioni intraprendere per difendersi efficacemente?

A fronte del mobbing, il lavoratore ha fondamentalmente tre strade percorribili:

  • azione di corretto adempimento del contratto di lavoro (da parte del datore di lavoro responsabile), esperibile anche in via d'urgenza (cautelare), per chiedere al giudice del lavoro di inibire le condotte vessatorie o comportamento mobbizzante e per ottenere un eventuale risarcimento del danno
  • l'azione (meno consigliabile) di svolgere una eccezione di inadempimento, contro il datore di lavoro, rimedio previsto dall’art. 1460. c.c., finchè il datore non adempia correttamente alla propria contro-prestazione di garantire la salute del dipendente sul posto di lavoro e/o ambiente lavorativo.
  • l’azione risarcitoria, finalizzata al previo accertamento dell’inadempimento contrattuale del datore di lavoro, reo di aver realizzato il comportamento mobbizzante, per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, biologico, e di natura "esistenziale" (che si riescano a  provare di aver subito quale conseguenza immediata e diretta del  comportamento mobbizzante). La quantificazione del danno può avvenire anche ricorrendo all’equo apprezzamento  del giudice,  prendendo come parametro una quota della retribuzione mensile in sommatoria per tutta la durata dell’illecita condotta mobbizzante.
  • E' di estrema importanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo.

Conclusioni:

Come abbiamo visto è possibile avere la giusta tutela anche a fronte di condotte mobbizzanti sul luogo di lavoro. Tuttavia, in questa materia, è fondamentale approfondire gli aspetti specifici di ogni singolo caso, che non è mai identico ad un altro, in modo da impostare la migliore strategia e raggiungere la prova necessaria ad ottenere il risarcimento del danno subito e la cessazione delle condotte mobbizzanti.

Per tali ragioni, è evidentemente essenziale avvalersi senza ritardi di un avvocato giuslavorista, specializzato in Diritto del Lavoro, che sappia analizzare gli aspetti con competenza e tempestività di azione.

Rischio Covid: Infortunio sul lavoro o malattia?

Quando la malattia da Covid integra l'infortunio sul lavoro ?

Si è fatta spesso confusione tra infortunio sul lavoro e responsabilità del datore del lavoro in materia di sicurezza, tra diritto all'indennizzo INAIL e risarcimento civile del maggior danno: facciamo un po' di chiarezza su questi temi per comprenderli e capire quando e come potersi tutelare, in ogni caso, efficacemente.

Secondo il Testo Unico per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, gli elementi necessari affinché si configuri un infortunio sul lavoro sono:

la causa violenta;

l’occasione di lavoro;

la lesione come conseguenza dell’evento.

La causa violenta consiste in un evento che con forza concentrata e straordinaria agisca, in occasione di lavoro, dando luogo ad alterazione lesive: esso distinguere l’infortunio dalla malattia professionale.

Di contro, nella fattispecie “malattia professionale”, la lesione si registra come diretta conseguenza di una prolungata esposizione all’agente patogeno”.

Alla luce di ciò, nel caso di contagio da Covid-19 il legislatore ha ritenuto si configuri la causa violenta e lo ha qualificato, pertanto, infortunio sul lavoro.

Il fatto di essere qualificato infortunio sul lavoro (anziché malattia professionale), fa sì che la patologia da Covid 19 costituisca infortunio senza necessità di accertare il nesso causale tra esposizione al rischio e lesione, come nel caso di malattia professionale, bensì è sufficiente che l’evento si sia verificato in “occasione di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza l’infortunio fa sorgere il diritto all’indennizzo anche nell’ipotesi del rischio improprio, ossia non solo in quello intrinsecamente connesso all’esecuzione delle mansioni tipiche del lavoro prestato dal dipendente, ma altresì in quel rischio insito in un’attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette mansioni e, comunque, ricollegabile al soddisfacimento di esigenze lavorative (cfr. Cass. civ., sez. lavoro, 14 ottobre 2015, n. 20718).

In definitiva, affinché l’infortunio sia indennizzabile da parte dell’INAIL, non è necessario che l’evento lesivo sia avvenuto nell’espletamento delle mansioni cui il lavoratore è tipicamente adibito, essendo sufficiente che lo stesso sia occorso durante lo svolgimento di attività strumentali o accessorie.

Quali sono le conseguenze positive per il dipendente ?

La legge stabilisce che in caso di malattia il rapporto di lavoro è sospeso e il datore di lavoro non può licenziare il dipendente malato fino a che non sia scaduto il c.d. periodo di comporto, ossia di conservazione del suo posto di lavoro, secondo quanto stabilito al riguardo dai Contratti Collettivi (applicati dall’impresa in questione).

Ebbene, il periodo di infortunio sul lavoro correlato al Covid19 :

Cosa si intende per “presunzione di origine professionale dell’evento lesivo” per alcune categorie di lavoratori.

Con la circolare n. 13/2020 l’Inail introduce una presunzione semplice di origine professionale del contagio da Covid-19 operante a favore di alcune categorie di lavoratori, derivante dalla maggiore esposizione al rischio in ragione delle particolari mansioni cui sono adibiti.

Operatori sanitari

Il classico esempio di tali categoria è rappresentato dagli operatori sanitari o ospedalieri, per il quali il rischio diventa addirittura “specifico”, con tutte le implicazioni anche in termini di obblighi datoriali per la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Operatori a contatto con il pubblico

Altro categoria è rappresentata da coloro che nell’espletamento delle loro mansioni si trovato a contatto diretto con l’utenza pubblica, come ad esempio:

- operatori front-office

- addetti alla cassa

- addetti alle vendite/banconisti

- personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi

Tale presunzione consente, a determinate condizioni, di riconoscere protezione assicurativa ed indennizzo anche nei casi in cui l’identificazione delle precise cause del contagio si presenti di difficile verifica.

A tal proposito, il quadro normativo di riferimento prevede che “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.

Per tutte queste categorie di lavoratori in caso di contagio, il requisito dell’occasione di lavoro sarà, pertanto, presunto, salvo prova contraria che dimostri con certezza che lo stesso sia avvenuto per ragioni estranee all’attività lavorativa.

E le responsabilità del datore di lavoro ?

E' opportuno precisare che i criteri di accertamento presuntivo del nesso di causalità ai fini della tutela assicurativa e indennitaria, avendo funzione solidaristico-previdenziale, sono profondamente diversi e restano distinti dai criteri che invece valgono a fondare, o meno, una responsabilità di natura civile, ed anche penale, del datore di lavoro.

Queste ultime devono essere infatti acclarate sulla scorta di criteri diversi da quelli operanti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative, che attengono alla diligente e perita attuazione di determinate misure di sicurezza, come prescrive in linea generale l’art. 2087 c.c., e come previsto in via speciale dai protocolli condivisi (stipulati dalle parti sociali per i diversi settori produttivi)  di prevenzione e contenimento rischio Covid 19.

In particolare, nel decreto-legge n. 23 del 2020, e precisamente all’art. 29-bis, il legislatore ha precisato che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni  contenute” nei diversi protocolli sottoscritti dalle parti sociali.

L’art. 2087 c.c., che sebbene “rafforzato” per effetto delle specifiche dedotte nei protocolli anti-Covid, non esprime una responsabilità di natura oggettiva, bensì sempre dipendente da fattori di negligenza, imprudenza e imperizia datoriale.

In conclusione:

Abbiamo appena visto su quali presupposti si fonda il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro da Covid 19 ed il relativo diritto all’indennizzo assicurativo INAIL.

Acquisire conoscenze e consapevolezza è sempre il primo step per tutelare i propri diritti, mentre rivolgersi all’avvocato specializzato in Diritto del Lavoro è sempre fondamentale per ottenere il miglior risultato possibile, perché nella sfortunata ipotesi di malattia all’indennizzo può sommarsi un risarcimento o altro tipo di ulteriore tutela, che potrebbe spettare al lavoratore in determinate situazioni.

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Il giusto inquadramento e la giusta retribuzione.

Sul lavoro hai di fatto responsabilità maggiori, o svolgi mansioni "superiori" a quelle indicate nella tua lettera d'assunzione?

Hai diritto al corretto inquadramento e soprattutto al corrispondente aumento di livello retributivo, a prescindere da ciò che risulta scritto nel tuo contratto!

Molti dipendenti nel corso del rapporto lavorativo, e talvolta sin dall'inizio, si trovano di fatto a svolgere mansioni che non corrispondono a quelle previste nel loro contratto di lavoro, ma che sono in realtà riconducibili ad un inquadramento superiore (e quindi a superiori livelli retributivi).

Altri si ritrovano ad avere maggiori responsabilità, o funzioni più rilevanti, rispetto a quelle che inizialmente gli erano stata assegnate in fase di assunzione.

Succede però che, nonostante tali maggiori responsabilità o mansioni superiori, il datore di lavoro non ti abbia adeguato la retribuzione, nè abbia rettificato il tuo inquadramento o livello contrattuale, con tutto ciò di negativo che ne consegue non solo a livello economico, ma anche curriculare e di bagaglio professionale.

Tali situazioni, sia che si verifichino dall'inizio del rapporto, sia che si sviluppino a distanza di tempo dall'assunzione, portano con sè il diritto ad ottenere l'inquadramento professionale e la retribuzione corrispondenti alla situazione di fatto, ossia alle mansioni effettivamente svolte, a prescindere dalle mansioni che risultano indicate e descritte nella lettera di assunzione o nel tuo contratti di lavoro (anche successivo).

Infatti, la giurisprudenza della Cassazione ha costantemente affermato che lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica (anche non immediatamente superiore a quella di inquadramento formale) comporta in ogni caso il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore.

Inoltre, tale diritto non è condizionato alla sussistenza di un atto scritto (o di altri presupposti) di assegnazione delle mansioni, nè alle previsioni o classificazioni del personale della contrattazione collettiva.

Tale diritto si fonda direttamente sul principio, Costituzionalmente garantito (art. 36 Cost.), volto ad assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro effettivamente prestata, al di là del c.d. nomen iuris (inquadramento formale).

Non è dunque rilevante ai fini della decisione l’accertamento operato dal giudice dell’appello quanto alla esistenza dell’atto scritto di conferimento di mansioni superiori.

Alcuni principi sanciti dalla giurisprudenza della Cassazione:

Il lavoratore che rivendichi nei confronti del datore di lavoro lo svolgimento di mansioni, potrà inoltre giovarsi, ai fini probatori, del fatto che egli abbia sostituito un dipendente inquadrato in una categoria superiore, sebbene non sia di per sè fattore decisivo.

La prova inequivocabile, dell'attribuzione a mansioni superiori con diritto alla retribuzione superiore corrispondente, è data in primis dalla sistematicità di assegnazione a mansioni superiori che siano prevalenti e caratterizzanti (non marginali) del ruolo e della prestazione lavorativa, con una rispondenza delle stesse ad una esigenza strutturale, o ad una utilità organizzativa, del datore di lavoro.  

Anche nel caso in cui il datore di lavoro assegni al lavoratore solo alcune delle mansioni corrispondenti alla categoria superiore, con prevalenza tuttavia rispetto agli altri compiti allo stesso affidati, opera il meccanismo di avanzamento automatico nella qualifica superiore, e retribuzione superiore, previsto dall’art. 2103 cod. civ.. La norma non richiede infatti che il lavoratore svolga tutte le mansioni di coloro che sono inquadrati nella  qualifica superiore, ma prescrive soltanto che i compiti affidati al lavoratore siano superiori a quelli della categoria in cui è inquadrato.  

Cosa fare in situazioni del genere, e come tutelarti efficacemente?

Il primo passo è ovviamente quello di analizzare, ricorrendo all'avvocato giuslavorista, a quale livello superiore siano effettivamente riconducibili le tue mansioni, o funzioni o responsabilità; al fine di calcolare e richiedere al tuo datore di lavoro tutte le differenze retributive, ossia le maggiori retribuzioni cui avevi diritto, ma che non ti sono state corrisposte, ed ottenerle in relazione a tutto il periodo di tempo (anche anni) nel quale tu hai svolto mansioni superiori.

Ciò può essere fatto già in corso di rapporto, a maggior ragione laddove la tua azienda abbia un numero di dipendenti sufficiente all'applicazione della c.d. tutela reale (di norma superiore a 15), poichè in tal caso la prescrizione del diritto alle retribuzioni decorre già durante il rapporto lavorativo in essere.

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Controlli del datore di lavoro: quando sono leciti, e quando invece violano i tuoi diritti e la tua Privacy?

Diritto del Lavoro: la disciplina dei controlli a distanza sull'attività lavorativa.

L'art. 23 del D.lgs. 151/2015 (in vigore dal 24 settembre 2015) ha modificato lo Statuto dei lavoratori, il cui art.4 oggi non contempla più un esplicito divieto di controllo a distanza dell’attività lavorativa, ma stabilisce che l’impiego di impianti audiovisivi, o qualsiasi strumento di controllo a distanza, è legittimo se giustificato da:

- esigenze organizzative e produttive

- o da motivi di sicurezza sul lavoro

- o di tutela del patrimonio aziendale

- deve esservi un previo accordo collettivo stipulato con la RSU o RSA (rappresentanze sindacali in azienda) o con gli Organismi Sindacali comparativamente più rappresentativi nel caso di imprese con unità ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni;

- in alternativa (mancanza di tale accordo sindacale), occorre l'apposita autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro, o del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Controlli a distanza c.d. indiretti per finalità organizzative e di sicurezza.

Due sono gli aspetti presi in considerazione dal nuovo testo della norma:

Gli impianti audiovisivi continuano, come in passato, a poter essere utilizzati dall’imprenditore esclusivamente per esigenze di carattere organizzativo e produttivo, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale. Come detto, affinché la loro installazione ed il loro utilizzo sia considerato legittimo, è necessario che vi sia un accordo sindacale circa le modalità di utilizzo di tali apparecchiature, ovvero la previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro o del Ministero del Lavoro: entrambi gli organi, infatti, svolgono un compito di verifica della legittimità e della correttezza dell’impiego di questi strumenti a tutela dei dipendenti.

Sul punto si è espressa anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, stabilendo che non viola l’art. 8 CEDU la videosorveglianza occulta dei dipendenti laddove sia giustificata dal ragionevole sospetto di furti e relative perdite economiche, tenendo conto dell’entità e delle conseguenze della misura. (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17/10/2019, n. 1874/13 e n. 8567/13)  

E' però importante sapere che, invece, per i cd. "controlli difensivi", non è necessario il preventivo accordo sindacale o l'autorizzazione della DTL: le apparecchiature di controllo (tipicamente videosorveglianza) sono in tal caso installabili senza autorizzazione, ma solo se ed in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, e mediante modalità non eccessivamente invasive (principi di adeguatezza e proporzionalità) e che siano comunque rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.

I controlli c.d diretti sui lavoratori, invece, entro che limiti sono possibili?

La legge legittima poi anche un controllo a distanza c.d. diretto effettuato sugli strumenti utilizzati dal lavoratore per eseguire le proprie mansioni e sugli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze (c.d. lettori badge).

In questo caso non essendoci l’obbligo per il datore di lavoro di raggiungere una intesa sindacale o l’autorizzazione ministeriale, è fondamentale sapere che il datore di lavoro può utilizzare le informazioni raccolte solo se vengano rispettate le due condizioni che seguono:

L’inosservanza anche solo di una delle suddette condizioni rende illegittimo l’utilizzo dei dati raccolti anche ai fini, ad esempio, di un procedimento disciplinare e, quindi, di un licenziamento per giusta causa.

Il terzo comma del nuovo art. 4 dello Statuto dei lavoratori, infine, stabilisce che le informazioni raccolte attraverso l’esercizio del potere di controllo sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, tra i quali figura anche l'eventuale procedimento disciplinare (finalizzato a sanzioni o a licenziamento), purchè sia stata effettuata, in favore dei lavoratori, una adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e sulle modalità di effettuazione dei controlli, in aggiunta alla necessaria conformità alla normativa in materia di privacy.

Inoltre è bene sapere che l’informativa predisposta ai sensi del comma 3 dell’art. 4 St. lav. dovrà essere dettagliata, specifica e rivolta ai dipendenti non in modo generico, bensì in base agli strumenti di lavoro utilizzati .

Violazione della Privacy ed altri esempi di violazioni nei controlli a distanza sui dipendenti.

La raccolta e gestione di tutta la mole di dati di cui il datore di lavoro può disporre attraverso l’utilizzo dei sistemi di controllo degli strumenti di lavoro deve conformarsi e rispettare i principi basici dettati in materia di Tutela della Privacy - GDPR, secondo cui i dati devono essere:

In caso di violazione di tali principi, come in caso di altre violazioni specifiche della normativa in materia di protezione dati sensibili e Privacy, può configursi un illecito anche penalmente rilevante da parte del datore di lavoro, ed le informazioni o dati raccolti attraverso gli strumenti di controllo sono inammissibili e inutilizzabili.

Ecco alcuni esempi (trattati dalla giurisprudenza della Cassazione) di violazioni da parte del datore di lavoro:

- Vi è violazione della normativa in materia di privacy, ove il datore di lavoro che controlli i dipendenti mediante pedinamento e l’accesso all’account di posta elettronica senza dare atto delle ragioni e delle effettive modalità del controllo. Inoltre, è illegittimo ai sensi dell’art. 4, co. 2 St. lav. il controllo diretto sull’account email del dipendente, in assenza dell’adeguata informazione prevista dall’art. 4, co. 3 St. lav.: tali violazioni comportano l’inammissibilità delle risultanze ottenute dai controlli occulti e, dunque, l’inutilizzabilità delle informazioni acquisite, anche per supportare un eventuale procedimento disciplinare e/o un licenziamento.

- Sono in ogni caso considerati invasivi i controlli cd. difensivi eccedenti, sotto l’aspetto temporale, i limiti della adeguatezza e proporzionalità e, sotto il profilo sostanziale, quelli ricadenti sugli aspetti personali estranei all’oggetto e fine dell’indagine: secondo la Cassazione, infatti, "l'esigenza, pur meritevole di tutela, del datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere una portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore".

- Laddove vi sia controllo dei dipendenti mediante rilevazione dei dati di entrata e di uscita, attraverso le timbrature del badge aziendale, ove tale modalità non sia concordata preventivamente con le rappresentanze sindacali e ove si traduca in un controllo sul quantum della prestazione lavorativa, è illegittimo e viola i limiti di cui all’art. 4 St. lav. ante Riforma. Diversamente, è legittimo l’impiego delle risultanze del badge ove finalizzato allo svolgimento di indagini aventi a oggetto fatti illeciti del dipendente, fra cui l’utilizzo abusivo del badge aziendale  

- Il controllo per tramite di una agenzia investigativa non può riguardare in nessun caso né l’adempimento né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l’inadempimento stesso riconducibile all’attività lavorativa, che è sottratta a suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili all’inadempimento dell’obbligazione, e ciò anche nel caso di prestazioni lavorative svolte al di fuori dei locali aziendali.   

E nel caso di smart working, quali controlli sul lavoro sono consentiti ?

In base alla legge di riferimento, deve essere l’accordo individuale (sul lavoro agile) a disciplinare l'esercizio del potere di controllo sulla prestazioni resa dal lavoratore dipendente, all'esterno dei locali aziendali, nel rispetto dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.

Con specifico riguardo allo smart worker, che lavora al proprio domicilio utilizzando un computer aziendale o uno smartphone, ad esempio, i controlli debbono essere giustificabile con la tutela dalla strumentazione in datazione, inclusi software aziendali, nonchè per la tutela dei dati aziendali utilizzati per lo svolgimento delle mansioni.

Infine, è bene per il lavoratore prestare attenzione al fatto che, secondo una recente sentenza della Cassazione, non è applicabile la disciplina sul controllo a distanza quando il datore di lavoro si limiti a stampare la cronologia di navigazione internet, perché in tal caso i dati non sono raccolti attraverso un dispositivo di monitoraggio installato ad hoc, e poiché l’art. 4 St. lav. si applica soltanto a quei controlli che rilevano dati sulla produttività ed efficienza nello svolgimento dell’attività lavorativa e non, viceversa, a quelli che riguardano condotte illecite estranee alla prestazione di lavoro. (Cass. 1/2/2019 n. 3133)

Videosorveglianza, controlli su computer o telefoni aziendali, e la Privacy.

In generale il datore di lavoro può installare un sistema di videosorveglianza in azienda, ma non al fine di controllare a distanza i propri dipendenti, bensì solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale.

Resta il fatto che, una volta installate, le videocamere consentono al datore di lavoro anche la possibilità di controllare l'operato dei propri dipendenti.

Proprio per questo motivo quindi, a meno che le telecamere non inquadrino luoghi dove non si pratica alcun tipo di attività lavorativa (nemmeno di carico e scarico merci), abbiamo visto che è sempre necessario il previo accordo con le rappresentanze sindacali o la previa autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, volto proprio a verificare preventivamente che la finalità delle videocamere non sia il puro e semplice controllo dei lavoratori, bensì quella di far fronte ad effettive esigenze organizzative, produttive o di sicurezza, e che il potenziale controllo sia contenuto entro certi limiti. 

Anche l'ispezione dei computer aziendali, nonchè dei telefoni o smartphone e tablet aziendali, non può essere finalizzata al mero controllo a distanza della sua attività lavorativa. Pertanto, il lavoratore deve essere informato della possibilità di controllo, sebbene non sia necessario il suo consenso al riguardo; controllo che deve peraltro essere necessario e proporzionato rispetto alla finalità aziendale e che non può comunque essere continuativo o ad oltranza.

La normativa sulla Privacy giustifica l’impiego di controlli in termini di c.d. videosorveglianza «intelligente» e persino ispezioni «retroattive» sul pc aziendale dei dipendenti, sempre che particolari esigenze lo richiedano, come ad esempio laddove l'azienda svolga un’attività che deve essere tutelata in maniera particolare per rischio sabotaggi o attacchi terroristici.

I controlli a distanza ed il licenziamento per giusta causa.

L'attuale normativa vigente consente al datore di lavoro di utilizzare i dati ripresi dalle videocamere e le informazioni raccolte dagli strumenti di lavoro aziendale (pc, telefoni, smartphone e tablet in dotazione ai dipendenti) per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro e quindi anche ai fini disciplinari.

Come abbiamo detto, però, il datore di lavoro deve aver rispettato la normativa sulla Privacy, e deve aver preventivamente fornito ai lavoratori adeguata informazione sulle modalità d’uso degli strumenti e sulle modalità di effettuazione dei controlli, facendo ricorso ad una specifica e dettagliata policy o regolamento aziendale sul punto, e che informi in merito alla possibilità di apprendere dati e circostanze utilizzabili disciplinarmente carico dei dipendenti: e ciò in quanto, ad esempio, ove vengano rilevati fatti estremamente gravi, posti in essere da un lavoratore, i dati registrati potrebbero essere utilizzati anche per fondare il licenziamento per giusta causa di quel dipendente.  

In conclusione.

In questo articolo, abbiamo visto per sommi capi tutti i principi di legge e di giurisprudenza in materia di controlli da parte del datore di lavoro, ed abbiamo visto come la riforma normativa consente oggi controlli molto più ampi (specie per ragioni di salvaguardia del patrimonio aziendale), e come i dati raccolti possano essere utilizzati per motivi discliplinari ed addirittura per licenziare un dipendente per giusta causa.

Pertanto, è sempre più fondamentale, sapere se il datore di lavoro compie tali controlli rispettando i diritti dei lavoratori ed i requisiti di legge, in modo da poter tutelare la propria privacy ed i propri diritti, anche contro potenziali provvedimenti disciplinari (o peggio ancora di licenziamento.)

Ovviamente ogni singolo caso va analizzato perchè presenta caratteristiche diverse ed uniche, oltre al fatto che anche ogni realtà aziendale è unica e diversa da un'altra.

Per tale ragione riveste importanza fondamentale intervenire tempestivamente con l'assistenza di un avvocato esperto in Diritto del Lavoro, così di poter tutelare efficacemente i propri diritti..

Come e quando rivendicare i diritti da lavoro dipendente a prescindere dal tipo di contratto.

Come aver diritto - anche quando il tuo contratto non lo prevede - a diritti come giusta retribuzione, malattia, maternità, e tutela contro licenziamento?

Qualora un rapporto di lavoro, a prescindere da come venga formalmente qualificato (da parte del datore nel contratto), presenti i requisiti della natura subordinata (c.d. vincolo di "etero-direzione"), il lavoratore potrà sempre e comunque rivendicare una serie di diritti e tutele:

Perché tale rivendicazione sia possibile, è necessario che ricorrano dei requisiti o indici sintomatici della etero-direzione datoriale, ossia del fatto che il datore di lavoro eserciti sul lavoratore il suo potere di direzione e controllo, con potere disciplinare, e senza lasciargli ampie autonomie.

Quali sono gli indici della subordinazione, che possono garantire l'accesso ai pieni diritti ?

La giurisprudenza, in particolare della Corte di Cassazione, ha nel corso degli anni individuato una serie di aspetti, che ove presenti nello svolgimento effettivo delle prestazioni lavorative, possono legittimare la c.d. "riqualificazione" del rapporto di lavoro, più favorevole per il lavoratore:

- inserimento stabile all'interno dell'organizzazione aziendale, che può avvenire sia fisicamente allorquando l'attività lavorativa si volga presso una postazione interna ai locali aziendali, o comunque riscontrabile dall'utilizzo, per lo svolgimento dei compiti e mansioni, di strumenti di proprietà del datore di lavoro che gli vengono appositamente forniti al dipendente anche per modalità di c.d. smart working o lavoro agile

- un orario di lavoro fisso o comunque predeterminato dal datore, con obbligo di presenza e necessità di avvertire e giustificarsi in caso di assenza;

- il dover concordare o farsi autorizzare le ferie;

- il ricevere costantemente ordini, direttive o disposizioni specifiche;

- assoggettamento al potere di controllo dal datore, anche a distanza, ed al potere disciplinare

- la mancanza in capo al lavoratore di autonomia ovvero di una seppur minima struttura imprenditoriale quale struttura organizzativa di mezzi idonei ad espletare l'attività.

Nessuno degli elementi sopra indicati è di per sé solo sufficiente o determinante, ma, laddove sia riscontrabile la contemporanea presenza di più indici tra quelli esemplificativamente indicati, o comunque ove sia possibile (mediante altri fattori) dimostrare il fattore determinante dell'assoggettamento al potere di direzione e controllo del datore, sarò dimostrata la natura subordinata del rapporto, con tutti i diritti che ne conseguono.

La distinzione tra il rapporto di lavoro subordinato, o lavoro dipendente, ed il rapporto di lavoro autonomo.

Lavoro subordinato e parasubordinato, lavoro autonomo e collaborazioni coordinate e continuativo, o saltuario: sono molteplici le forme con cui un'attività lavorativa può essere resa, ed i confini tra le stesse non sono sempre facili da tracciare; e per ognuna delle varie tipologie, trova applicazione una disciplina differente, sia sul piano normativo che fiscale.

Come detto, in tema di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, l’esistenza del vincolo di subordinazione va valutata caso per caso, sulla base delle modalità concrete di svolgimento del rapporto, ricercando la presenza dei c.d. indici di cui sopra.

Secondo la Cassazione, occorre poi aver riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore, ed al modo della sua attuazione, fermo restando che, ove l’assoggettamento del lavoratore alle direttive datoriali non sia agevolmente apprezzabile, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari – come quelli sopra elencati – da valutarsi globalmente come elementi probatori della subordinazione.

Cosa dice il codice civile ?

L'articolo 2094 c.c. definisce lavoratore subordinato colui che si impegna, a fronte di una retribuzione, a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore, senza ulteriori specificazioni.

Secondo l'art.2222 c.c. si ha, invece, un contratto d'opera, e quindi una prestazione di lavoro autonomo, quando ci si obbliga a rendere in prima persona un'opera o un servizio "senza vincolo di subordinazione".

Si tratta, come si vede, di definizioni di carattere generale.

Tuttavia, è bene ricordare che la stipulazione di accordi che qualifichino un rapporto di lavoro in un modo piuttosto che in un altro, non è decisiva, in quanto ciò che rileva e conta sono le caratteristiche con le quali si svolge in concreto il rapporto lavorativo, la cui reale natura dipende quindi dagli indici sopra illustrati anche in assenza di contratto di lavoro dipendente.

I collaboratori coordinati e continuativi, e i collaboratori con Partita Iva, quando possono rivendicare il rapporto dipendente e le relative tutele?

Per i collaboratori coordinati e continuativi, e per le partite iva, vige una particolare disciplina, ma opera il principio di presunzione legale di subordinazione qualora ricorrano alcuni requisiti, anche in questo caso a prescindere dalla qualificazione formale nel contratto.

L'attuale normativa (D.lgs 81/2015 come da ultimo modificato), che ha sostituito il regime delle vecchie collaborazioni a progetto, stabilisce che ogni tipo di collaborazione continuativa e coordinata (anche partita iva) far data dal 1° gennaio 2016, si applica sempre la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, e correlate tutele e diritti, anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in:

E' bene sapere che la disposizione di legge, di cui sopra, non trova però applicazione nei seguenti casi, ovvero sia con queste eccezioni:

a)  alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;

b)  alle collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali;

c)  alle attività prestate nell'esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

d)  alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289;

d-bis)  alle collaborazioni prestate nell'ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367;

d-ter)  alle collaborazioni degli operatori che prestano le attività di cui alla legge 21 marzo 2001, n. 74

Concludendo

In questo articolo abbiamo visto quali caratteristiche di un rapporto lavorativo possono consentir di rivendicare e ottenere tutte le tutele ed i diritti di un lavoratore dipendente o subordinato, al di la di quanto venga scritto nel contratto di collaborazione.

Vale sempre il principio, secondo cui ogni singolo caso, presentando peculiarità sue proprie, necessita di analisi e valutazione da parte dell'avvocato esperto in Diritto del lavoro, e ciò affinchè si possa intervenire per tempo ed in modo puntuale, per garantirti tutte le spettanze e le tutele che altrimenti ti verrebbero negate dal datore di lavoro.

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Malattia-Covid19 e "quarantena": come impattano sul tuo diritto alla conservazione del posto lavoro?

Come e in che modo la quarantena e la malattia per Covid-19 incidono sul periodo di c.d. "comporto" e quindi sul diritto alla conservazione del posto di lavoro?

In linea generale, alla luce del nuovo quadro normativo dettato dalle misure legislatite anti-Covid, recepito anche dalla stragrande maggioranza dei Contratti Collettivi, il periodo trascorso in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva:

Cosa si intende per periodo o termine di "comporto"?

La legge dispone che in caso di malattia il rapporto di lavoro è sospeso e il datore di lavoro non può licenziare il dipendente malato fino a che non sia scaduto il periodo di conservazione del suo posto di lavoro, secondo quanto stabilito al riguardo dai Contratti Collettivi (applicati dall'impresa in questione): tale periodo di conservazione obbligatoria è il cosiddetto periodo di comporto. 


Naturalmente, qualora si accerti la violazione di tale divieto, il lavoratore potrà accedere alla tutela risarcitoria, parametrata ad un numero anche rilevante di mensilità e variabile in relazione ad alcuni fattori.


Normalmente, i contratti collettivi sono soliti distinguere tra
- comporto secco, quando il termine di conservazione del posto fa riferimento ad un'unica malattia di lunga durata
- comporto per sommatoria, quando invece il periodo fa riferimento e contempla più malattie distinte.

Solo una volta decorso per intero il periodo o termine di comporto il lavoratore potrà essere licenziato dall'imprenditore, sebbene permanga il suo comprovato stato di malattia.

Come conservare il posto di lavoro, una volta esaurito il periodo di comporto? 

Tuttavia, in un'ottica di maggior tutela per la parte debole del rapporto (il lavoratore suborodinato malato), è bene verificare se sussistono, come spesso accade, disposizioni del ccnl di riferimento che consentano al dipendente di ottenere la c.d. aspettativa non retribuita: essa, per un periodo massimo indicato dal contratto, fa infatti sì che il rapporto di lavoro prosegua (in assenza di prestazioni lavorative e della correlata retribuzione salariale) anche oltre il termine di comporto, e per periodo anche piuttosto lunghi a seconda dei casi.

Inoltre è utile sapere che il datore di lavoro, normalmente, ha l'onere (che fa capo ai principi cardini e generali di "buona fede" e "correttezza" contrattuale) di preventivamente comunicare al lavoratore la facoltà di fruire della citata aspettativa; ed in pochi sanno che, in difetto, il dipendente malato potrà impugnare efficacemente il licenziamento ed ottenere il dovuto risarcimento, come stabilito in alcune sentenze dalla Corte di Cassazione.

Per giunta, non tutti sanno che il datore di lavoronon puòrifiutare l'aspettativa se non dimostrando la sussistenza di seri motivi, oggettivamente verificabili e non arbitrari, che siano impeditivi alla concessione della stessa.

Ulteriormente, è bene sapere che la domanda finalizzata ad usufruire dell’aspettativa dev’essere presentata dal lavoratore interessato e non può essere disposta unilateralmente dal datore di lavoro.

La malattia per Covid19 e quarantena con serveglianza attiva: quali effetti sulla conservazione del posto di lavoro?


La normativa introdotta dai DPCM per contrastare l'epidemia da Covid19 ha previsto che i periodi di quarantena e di permanenza domiciliare fiduciaria sotto "vigilanza attiva" sono equiparati alla malattia solo ai fini del trattamento economico, ma che essi invece non sono computabili ai fini del "comporto".

Ciò significa che i giorni di malattia per Covid sono esplicitamente estromessi dal computo delle assenze lavorative ai fini del calcolo del (complessivo) periodo o termine del c.d. comporto, rilevante per la conservazione del proprio posto di lavoro.

Allo stesso modo, il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva dai lavoratori del settore privato, è anch'esso equiparato a malattia (ai fini del trattamento economico) e non è computabile nel periodo di comporto.

Nello specifico, i suddetti periodi di malattia Covid e quarantena con sorveglianza attiva sono equiparati al periodo di ricovero ospedaliero, e pertanto per i connessi periodi di assenza dal lavoro, non si applica la generale decurtazione del trattamento accessorio per i primi dieci giorni (RPD per i docenti, CIA per il personale TA, Indennità di amministrazione per il personale EP); ed il lavoratore è inoltre esentato dal rispettare le fasce orarie di controllo mediante c.d. visita fiscale.

Al riguardo, è utile sapere che si considera quarantena ai suddetti fini e diritti, l’assenza dal luogo di lavoro per il tempo intercorrente tra l’esito (che risulti positivo) delle analisi sierologiche e del tampone, con presentazione di idoneo certificato medico rilasciato dal medico e/o ASL competente.

Diverso, è invece il caso in cui, una volta avvenuta la guarigione dall’infezione Covid19, il lavoratore dovesse sviluppare – quindi in un secondo e distinto momento – delle patologie correlate. In tali casi, purtroppo, non vi è stato, ad oggi, alcun intervento legislativo volto a tutelare il dipendente, che in teoria si trova esposto alla possibilità di essere licenziato per superamento del comporto.

In tal caso è bene considerare e valutare (con un avvocato specializzato in materia di Diritto del Lavoro) una serie di circostanze, al fine di poter comunque ottenere la massima tutela possibile.

Cosa accade in caso di Cassa Integrazione e Malattia-Covid?

Qualora l'azienda abbia fatto ricorso alla Cassa Integrazione, in caso di malattia del lavoratore, il trattamento di integrazione salariale sostituirà l’indennità giornaliera di malattia (e l'eventuale integrazione contrattualmente prevista).

 Al contrario, nel caso di Cassa integrazione non a zero ore, ma con rotazione dei dipendenti ad orario ridotto, prevarrà l’indennità economica di malattia.

Inoltre, anche in caso di Cassa integrazione a zero ore, qualora lo stato di malattia sia precedente all’inizio della sospensione (dell’attività lavorativa) in Cassa, e non venga sospesa la totalità del personale, dell'unità cui è addetto il lavoratore in malattia, prevarrà l’indennità di malattia.

Tali regole valgono anche per le domande di integrazione salariale (CIGO, FIS, CIGD) intervenute nel corso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.  

Per concludere:

In questo articolo ha riassunto gli effetti della quarantena e della malattia (Covid) rispetto al comporto ed al diritto di conservazione del posto di lavoro, analizzandone alcuni aspetti.

Come sempre, ogni situazione lavorativa e personale del dipendente hanno precise peculiarità che devono essere approfondite e ben valutate, attraverso una consulenza specialistica dell'avvocato esperto in Diritto del Lavoro, onde poter garantire al lavoratore una tutela tempestiva ed efficace dei suoi diritti.

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Riduzione del personale: cosa può agevolare l'imprenditore nella procedura?

La ristrutturazione di un solo ramo o settore della sua impresa consente all'imprenditore di avere vantaggi nella procedura di mobilità?

Con una recentissima pronuncia la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro (5 ottobre 2020, n. 21306) ha sancito che in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, l'imprenditore può (nel suo interesse) limitare la platea dei lavoratori coinvolti nella riduzione del personale agli addetti di un solo reparto o settore, qualora ricorrano oggettive esigenze tecnico - produttive.

Un tipico esempio è rappresentato dall'ipotesi in cui il progetto di ristrutturazione aziendale coinvolga una sola unita' produttiva o settore aziendale: in tal caso, la comparazione dei lavoratori puo' essere limitata ai soli addetti di quella unita' o settore da ristrutturare, purchè nella comunicazione di apertura della procedura di mobilità siano specificate, sia le ragioni tecnico-produttive ed organizzative alla base della limitazione alla singola unità o reparto, sia le ragioni per cui non ritenga attuabile il trasferimento dei dipendenti ad altre unita' produttive.

Per avere vantaggi, a quali aspetti l'imprenditore deve prestare attenzione per non incappare nella illegittimità dei licenziamenti?

Tale indicazione specifica nella comunicazione è fondamentale ed obbligatoria, poichè atta a consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessita' dei programmati licenziamenti.

A questi profili il datore di lavoro deve prestare particolare attenzione in quanto qualora, nella comunicazione obbligatoria si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unita' produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (cfr. Cass. n. 4678 del 2015).

Inoltre si dovrà operare affinchè la comparazione dei lavoratori - al fine di individuare quelli da avviare alla mobilita' - possa avvenire nell'ambito della singola unita' produttiva, ed al contempo al fatto che, secondo la Cassazione, deve escludersi la possibilità di circoscrivere la selezione alla singola unità laddove i lavoratori da licenziare siano idonei - per acquisite esperienze e per pregresso e proficuo svolgimento della propria attivita' in altri reparti - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altre unità, reparti o sedi.

Infine, altro fattore a cui l'imprenditore dovrà prestare attenzione, è quello relativo è quello degli elementi acquisiti in sede di esame congiunto, nel senso che, laddove non emerga il carattere infungibile dei lavoratori collocati in CIGS o comunque in difetto di situazioni particolari evidenziate per l'appunto in sede di esame congiunto, la scelta deve sempre interessare i lavoratori addetti all'intero complesso. 

Per concludere...

In questo breve articolo ho provato a descrivere alcuni aspetti che possono agevolare la riduzione del personale e quindi i licenziamenti nell'ambito di una ristrutturazione aziendale.

Ovviamente ogni realtà imprenditoriale, e lavorativa, è unica e presenta numerose peculiarità da analizzare per poterle sfruttare al meglio nell'ottica di un'efficace tutela degli interessi aziendali.

In tale, senso la consulenza dell'avvocato giuslavorista specializzato si rivela sempre determinante per qualsiasi riorganizzazione aziendale e di riduzione del personale, in quanto consente di ridurre al minino i costi della forza lavoro ed in rischi di contenzioso con i dipendenti.

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